Working from home and income inequality: risks of a ‘new normal’ with COVID-19

Bonacini L., Gallo G., Scicchitano S., 2021 – Journal of Population Economics, vincitore del Kuznets Prize 2022

Per limitare il numero di morti e ospedalizzazioni dovute alla pandemia di Covid-19, la maggior parte dei governi nazionali ha deciso di introdurre misure restrittive delle attività economiche e delle libertà individuali. In questo contesto, l’opportunità di lavorare in smart working è diventato di fondamentale importanza, poiché ha permesso ai lavoratori di continuare a svolgere le loro occupazioni (evitando dunque il più possibile di subire delle cadute di reddito) e ai datori di lavoro di continuare a produrre servizi (e ricavi), limitando allo stesso tempo le possibilità di contagio.

E se l’attitudine allo smart working aumentasse stabilmente dopo il Covid-19?

A causa delle incertezze dovute alla durata dell’emergenza sanitaria, infatti, il ruolo dello smart working nel mercato del lavoro potrebbe essere ulteriormente enfatizzato diventando un nuovo standard nelle modalità di lavoro in numerosi settori economici. Se così sarà, ciò potrebbe risultare in effetti strutturali nel mercato del lavoro a livello mondiale. Diversi studi hanno recentemente investigato questo fenomeno, specialmente con l’obiettivo di identificare il numero e il tipo di occupazioni che possono essere svolte in remoto. Tuttavia, quanto meno in una prima fase, la letteratura economica scarseggiava nell’indicare i potenziali effetti dello smart working sulla distribuzione salariale e sui livelli di disuguaglianza tra lavoratori.

In un articolo pubblicato sul Journal of Population Economics, intitolato Working from home and income inequality: risks of a ‘new normal’ with COVID-19, Bonacini, Gallo e Scicchitano hanno cercato di colmare questa lacuna esplorando quali cambiamenti determinerebbe un (possibile) futuro aumento dello smart working sui salari e sulla disuguaglianza salariale. In particolare, gli autori analizzano in che modo un aumento relativo ma persistente nel tempo del numero di lavoratori che svolgono occupazioni idonee allo smart working andrebbe ad influenzare la distribuzione dei salari.

L’analisi si concentra sull’Italia sia perché la pratica dello smart working era applicata raramente prima della pandemia (ultimo paese nell’Unione Europea) sia perché l’Italia è stato il primo paese occidentale a introdurre un lockdown delle attività economiche (11 marzo 2020). Nonostante l’assenza di precise legislazioni e regole, l’aumento dello smart working è stato comunque ingente e rapido. Da stime realizzate da alcuni ricercatori INAPP già ad aprile 2020, infatti, almeno 3 milioni di lavoratori avevano iniziato a lavorare da remoto a causa del lockdown e un gran numero iniziò già a farlo dalla chiusura di scuole e università avvenuta il 5 marzo 2020. Il dataset utilizzato nasce dall’unione di due indagini campionarie INAPP: l’indagine PLUS per l’anno 2018 e l’Indagine Campionaria sulle Professioni (ICP) per l’anno 2013. La prima indagine contiene numerose informazioni sui redditi, le competenze, i livelli di istruzione e le condizioni occupazionali degli italiani in età lavorativa, mentre la seconda offre informazioni dettagliate sulle caratteristiche di tutte le professioni svolte nel mercato del lavoro italiano.

Nella prima parte del loro lavoro gli autori mostrano che i dipendenti con alti livelli di fattibilità potenziale dello smart working sono più spesso donne, individui in età più avanzata, altamente istruiti e residenti in aree metropolitane. I settori economici caratterizzati da quote maggiori di dipendenti con elevata fattibilità dello smart working sono: finanza e assicurazioni, informazione, comunicazione, altri servizi alle imprese e Pubblica Amministrazione (Figura 1). Inoltre i dipendenti che lavorano in settori con alta idoneità allo smart working ottengono, in media, un reddito annuo da lavoro maggiore rispetto agli altri (27.300 euro contro 24.700 euro). Osservando le differenze tra i settori, i dipendenti con un indice WFH (indice di smart working)elevato ricevono questa sorta di “premio salariale” in 13 settori su 21 e talvolta il premio salariale è rilevante.

Figura 1 – Incidenza dei lavoratori con occupazioni con alta fattibilità di smart working (WFH) e salario medio per settore di attività

Note: Sono definiti dipendenti con alto livello di fattibilità di WFH (high attitude) quelli che riportano un valore dell’indice di fattibilità WFH superiore alla mediana campionaria pertinente. Fonte: Bonacini et al. (2021).

L’analisi econometrica si basa sull’uso dell’unconditional quantile regression method, che consente di stimare l’influenza di variazioni marginali della popolazione di riferimento su statistiche distribuzionali di una o più variabili di interesse. Gli esiti di questa analisi hanno mostrato che un aumento marginale delle occupazioni con alta idoneità allo smart working sarebbe associato nel mercato del lavoro italiano a un significativo aumento del salario medio. Questo potenziale beneficio non sarebbe tuttavia equamente distribuito tra i dipendenti. In particolare, disaggregando per caratteristiche dei dipendenti, un aumento delle occupazioni con alta idoneità allo smart working favorirebbe soprattutto i lavoratori dipendenti di genere maschile, over51, laureati e altamente retribuiti (Figura 2).

Figura 2 – Effetti incondizionati di un incremento nella fattibilità dello smart working (WFH) lungo la distribuzione del reddito da lavoro.

Nota: L’area in ombra riporta gli intervalli di confidenza al 90%. Le figure presentano solo i coefficienti della variabile di interesse (cioè alta fattibilità WFH). Le stime UE si basano su una specifica del modello che include solo la variabile di interesse, mentre per le stime UPE sono incluse nel modello delle variabili di controllo. Fonte: Bonacini et al. (2021).

Questa “innovazione forzata” rischia quindi di esacerbare le disuguaglianze preesistenti nel mercato del lavoro. In tal senso, mentre nell’attuale emergenza risultano utili le politiche già attuate e volte ad alleviare le disuguaglianze nel breve periodo (es. misure di sostegno al reddito), risultano ancor più necessari interventi a lungo termine per prevenire il futuro aumento delle disuguaglianze nel mercato del lavoro. Queste politiche a lungo termine dovrebbero tenere conto di tre distinti obiettivi. In primo luogo, la necessità di una massiccia riorganizzazione del lavoro – in particolare nel campo della re-ingegnerizzazione dei processi produttivi basati sulle nuove tecnologie digitali e sulle possibilità offerte in termini di lavoro da casa – che richiede nuove e più diffuse competenze. In secondo luogo, la promozione, attraverso adeguati incentivi economici e culturali, di una maggiore istruzione e formazione dei giovani, soprattutto quelli che provengono dalle famiglie più povere e che maggiormente avrebbero bisogno di aumentare il proprio capitale umano e competenze tecniche. Infine, le nuove politiche a lungo termine dovrebbero porre prioritaria attenzione al miglioramento della conciliazione lavoro-famiglia, la quale continua in Italia ad essere particolarmente complessa per le donne a causa dei maggiori carichi di cura ad esse attribuiti.

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