Grandparental availability for child care and maternal labor force participation: pension reform evidence from Italy

Bratti M., Frattini T., Scervini F., 2018 – Journal of Population Economics

In tempo di austerity e consolidamento fiscale da un lato ed invecchiamento della popolazione dall’altro, le riforme pensionistiche sono fondamentali per garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche nei paesi più sviluppati. Tuttavia, ancora troppo poco si dibatte degli effetti collaterali talvolta di ampia portata, di tali riforme, in particolare dei loro effetti di genere. Una questione centrale infatti è l’impatto delle riforme pensionistiche, in particolare dei requisiti d’accesso anagrafici e contributivi, sulla partecipazione della forza lavoro femminile qualora manchi un’adeguata offerta pubblica di servizi all’infanzia. Questo problema è ancora più urgente in un’ottica più ampia in cui si inseriscono i recenti obiettivi di riduzione del divario di genere nel mondo del lavoro in tutti gli Stati membri dell’UE, che a vari livelli è ancora sostanziale, specialmente nei paesi dell’Europa meridionale.

Massimiliano Bratti, Tommaso Frattini e Francesco Scervini hanno cercato di contribuire a questo dibattito in un loro articolo pubblicato recentemente sul Journal of Population Economics dal titolo Grandparental availability for child care and maternal labor force participation: pension reform evidence from Italy. Il punto di partenza è la constatazione che nei paesi dell’Europa meridionale si osserva una bassa partecipazione delle donne alla forza lavoro, in particolare delle madri, fenomeno spiegato in generale da fattori di tipo culturale, come il paradigma familiare del “male breadwinner”, che hanno poi influenzato la configurazione dello stato sociale e relativi vincoli istituzionali. Tra questi ultimi, la mancanza di assistenza all’infanzia fornita pubblicamente (asili nido) è considerato uno degli ostacoli principali per la riconciliazione famiglia-carriera delle donne. In Italia, ad esempio, la spesa pubblica per l’assistenza all’infanzia rappresenta un timido 0,2% del PIL, che rappresenta la metà della spesa media OCSE-30, come evidenziato nella Figura 1.

Figura 1 Spesa pubblica in assistenza all’infanzia e servizi educativi prescolari come percentuale del PIL, 2011. Fonte: OECD Family Database (http://www.oecd.org/social/family/database.htm), tabella PF3.1

Ne consegue che in un contesto di offerta pubblica di assistenza all’infanzia insufficiente e in calo, aumenta la probabilità che siano i nonni (e i parenti in generale) a sopperire a tale mancanza e dunque fornire un importante servizio informale di assistenza all’infanzia a prezzi accessibili per le donne che lavorano. Nel loro articolo, gli autori si chiedono dunque se ed in quali termini la potenziale disponibilità dei nonni per l’assistenza dei nipoti, a seguito di variazioni dei requisiti anagrafici e contributivi ai fini pensionistici, abbia un effetto positivo sulla partecipazione della forza lavoro femminile, e in particolare quella di donne con figli.

Studiare l’Italia è particolarmente interessante poiché negli ultimi anni vi sono stati tre importanti riforme pensionistiche che hanno gradualmente aumentato i requisiti pensionistici, vale a dire aumentando gradualmente il numero di anni di contributi richiesti per la pensione di anzianità e alzando l’età minima richiesta per la pensione di vecchiaia a 65.

L’analisi si basa sui dati dell’Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane (IBF), condotta dalla Banca d’Italia ogni 2 anni su un campione di 8000 famiglie (circa 24.000 persone) all’anno. Tale rilevazione è una fonte molto ricca di informazioni in quanto si concentra sul mercato del lavoro e sul reddito delle famiglie, ma raccoglie anche informazioni su istruzione, caratteri socio-demografici, consumo e caratteristiche delle abitazioni. Inoltre, oltre a fornire informazioni complete su tutti i membri della famiglia, i capifamiglia e i loro partner riportano anche l’anno di nascita, il loro status lavorativo, il livello di istruzione e la presenza in vita o meno dei loro genitori.

I principali risultati dello studio mostrano che le madri con bambini conviventi di età inferiore a 15 anni le cui madri sono idonee al pensionamento hanno una probabilità di partecipazione alla forza lavoro (LFP) più elevata di 7,1 punti percentuali (+ 11%) rispetto a quelle le cui madri non hanno ancora maturato i requisiti. Questo risultato indica che la disponibilità delle nonne per l’assistenza all’infanzia facilita la partecipazione della forza lavoro delle donne con bambini piccoli.

L’ammissibilità pensionistica dei nonni (di genere maschile), sia materni sia paterni, invece, non ha effetti significativi.

In un ulteriore esercizio gli autori prospettano quale sarebbe il pattern della partecipazione femminile media utilizzando lo stesso campione in due scenari alternativi: uno scenario “pre-Amato” e uno scenario “Dini”.

I risultati sono rappresentati graficamente nella Figura 2. Il grafico (a) mostra il confronto considerando le madri con bambini di età compresa tra 0 e 14 anni. Si nota un impatto trascurabile delle regole di pensionamento sulla LFP media, con differenze annuali comprese tra 0,80 (1993) e 0,97 (1998) punti percentuali. Queste differenze corrispondono a un calo dell’1,7% circa nella partecipazione della forza lavoro. La differenza più interessante però si osserva scomponendo il campione per età dei figli. Il grafico (b) riporta quindi l’effetto aggregato sulle madri di bambini in età prescolare (0–5): le differenze tra scenari aumentano. La differenza è compresa tra 2,3 (2000) e 2,9 (1998) punti percentuali, corrispondenti a una riduzione di -4 e -5,5% nella LFP materna. Infine, ci si chiede se l’impatto trascurabile nel campione di tutte le madri (con figli 0-14) possa essere ricondotto al fatto che una parte sostanziale delle nonne materne non ha mai partecipato al mercato del lavoro e quindi non è interessata dalle riforme. Pertanto, nel grafico (c), che riporta gli stessi due scenari solo per le donne le cui madri hanno lavorato, emerge un divario molto più ampio: la riforma Dini ha un effetto negativo sulla LFP delle figlie, che raggiunge un picco nel 2000 e ammonta a una riduzione del 4,2% rispetto alla LFP del 67,7%.

Figura 2: Tassi di partecipazione alla forza lavoro (LFP) simulati nel campione di donne con bambini di età compresa tra 0 e 14 anni (a) e 0–5 (b) e la cui madre ha partecipato alla forza lavoro (c). Nota. La figura riporta i tassi di partecipazione alla forza lavoro di diversi campioni di donne calcolati in base a diversi requisiti di età pensionistica per le loro madri. In particolare, la linea più scura con i cerchi è tracciata supponendo che in tutti gli anni le regole di ammissibilità siano quelle che erano in vigore fino al 1992 (cioè prima della riforma Amato), mentre la linea più chiara con rombi è tracciata supponendo che in tutti anni si applichino le regole più restrittive stabilite dalla riforma Dini del 1995.

In conclusione, nei paesi dell’Europa meridionale, come l’Italia, che sono caratterizzati da un livello molto basso di assistenza pubblica all’infanzia, i nonni offrono alle donne che lavorano un’importante fonte di assistenza informale all’infanzia, che le aiuta a conciliare vita familiare e lavorativa. Secondo gli autori, quando attuate integralmente, le riforme pensionistiche implicano una riduzione annuale dell’1–1,5% dei tassi di LFP delle donne con bambini di età compresa tra 0 e 14 anni e una riduzione annuale del 5,5% per quelle con bambini di età compresa tra 0 e 5 anni. In altri termini, le donne le cui madri non sono disponibili per l’assistenza dei nipoti, a causa di un’età pensionabile più elevata o di requisiti pensionistici più rigorosi, subiscono una penalità in termini di partecipazione lavorativa non trascurabile rispetto a quelle che possono potenzialmente contare su tale assistenza informale. Nel loro insieme, questi risultati indicano che le riforme pensionistiche che aumentano l’età pensionabile o inaspriscono i requisiti per le pensioni di anzianità, se non abbinate a investimenti pubblici adeguati nella cura e assistenza pre-scolare, possono avere conseguenze indesiderate (non intenzionali) sulle probabilità di occupazione delle donne in età fertile privando le famiglie di un’importante fonte di assistenza all’infanzia flessibile e a basso costo.

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